Se si è cambiato città, per studiare o lavorare, ci si sente spesso soli. O se è appena finita un’amicizia importante, o un amore magari un po’ troppo simbiotico. Quando non si sa con chi partire l’estate, con chi uscire la sera. Ma anche quando lo si sa, e non basta a colmare il vuoto. O ancora, come ci si sente spesso soli, quando finisce la scuola! Dopo anni di condivisione forzata del tempo con dei propri simili non certo scelti, talvolta odiati, ecco che ci si trova liberi di frequentare chi si vuole. Ed è qui che per qualcuno comincia l’isolamento. Oppure, dopo il passaggio in pensione, quando i colleghi non sono più la quotidianità.
La solitudine ha molteplici cause, e livelli.
Ogni vocabolo ha un alone intorno: qual è il colore della tua solitudine?
Ognuno l’associa con emozioni e significati assolutamente personali. Per qualcuno è grigia, o giallastra, ed evoca peso, paura, nausea.
Per altri è blu, evoca Saturno, concentrazione, ricerca profonda. O autonomia, libertà.
E il contrario, di solitudine, per te, qual è?
Ancora, le risposte saranno assai differenti.
Per qualcuno può essere: folla, promiscuità, invasione.
Per altri è aiutare, e farsi aiutare, sentire di appartenere ad una comunità.
La solitudine può essere gloriosa (il solitario è un diamante meraviglioso), felice, creativa, terapeutica.
Ma quella di cui parlo qui è nuvolosa: il cielo di un azzurro ardente non può sfolgorare; una solitudine non scelta, spesso non riconosciuta: provata nel cuore, pur fra persone e relazioni anche numerose.
E il suo antidoto è una tersa disponibilità verso il prossimo, reciprocità, poter sentire di essere insieme, quando lo si desidera. Implica sempre uno scambio, anche solo simbolico, un dare e un ricevere, doni. E’ naturale, come il respiro, che entra ed esce, in uno scambio continuo fra interno ed esterno, senza il quale la vita cesserebbe.
Non voglio parlare delle “grandi amicizie”, rare e meravigliose, di cui tanti esempi troviamo nei miti, insostituibili e preziose.
Parlo di relazioni umane: talvolta anche solo un lampo d’intesa che apre le nuvole pur con un perfetto sconosciuto; senza un prima e un dopo, ma che ci rischiara in un inaspettato sorriso che si riverbera sin dentro l’anima.
Un riflettersi negli altri, come il cielo nel mare, non soli, e non persi nella massa. Poter parlare, con le parole o con i gesti, sentendoci ascoltati, e ascoltare, con l’intensità di una pianta che assorbe l’acqua dalle foglie e dalle radici.
E’ un bisogno naturale, ma gli ostacoli che gli si frappongono sono sempre più numerosi, ed è arduo tanto accorgersene quanto superarli, sia individualmente che come società attuale.
E’ questa, secondo me, la ricerca più importante da fare adesso. Il vero progresso, quello che rende più felici.
La nostra vulnerabilità, la parte più dolce e unica di ciascuno, sovente è così protetta e nascosta sotto una corazza scintillante, o opaca, che finiamo col perderne l’accesso noi stessi. Eppure è proprio lì che vorremmo essere trovati. Ed è proprio lì che vorremmo incontrare gli altri esseri umani.
Ma, secondo un detto toscano, siamo più sensibili, e fragili, delle antenne delle chiocciole.
La paura del giudizio, del rifiuto, del tradimento, fa sì che ci proteggiamo al punto da isolarci, da rendere i rapporti quotidiani sterili e formali. Perdiamo l’autenticità, le relazioni sono tutte funzionali, nel senso che servono ad una funzione; efficienti, nel migliore dei casi.
Il nostro profondo bisogno di amicizia, di condivisione, resta spesso inappagato e frustrato, sino a trasformarsi in sorda chiusura, in diffidenza e solitudine nuvolosa.
L’amicizia è una necessità, abbiamo tutti bisogno di sentirci accolti, rassicurati. Di capire come la parte che più abbiamo paura di far conoscere sia la migliore.
Ci vuole una fiducia di base, per aprirsi, pur sapendo che in realtà “sarete traditi da tutti”. “Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza, salverete le vostre anime” (Luca, 21,5-19). Perché infatti possiamo sopravvivere a un tradimento, a una delusione, che è umano che chiunque possa provocare in noi prima o poi, ma la nostra anima non sopravvive alla mancanza di quel nutrimento vitale che è il contatto autentico.
Il vuoto relazionale è correlato a molte patologie, che possono essere lette come tentativi errati di trovare amore, di essere colmati: l’alcool e il cibo in eccesso, le droghe, le dipendenze affettive, il superlavoro. Il desiderio più grande, per tutti, è sentirsi dire “non farti del male, siamo tutti qui”. Di ritrovare la pace e l’armonia del senso di comunità.
Nel buddhismo theravada si usa, all’inizio della seduta di meditazione, prendere rifugio nei tre gioielli: il Buddha (che rappresenta la possibilità dell’illuminazione in questa vita), il dharma (il cammino), e il sangha (la comunità dei praticanti). Il sangha è un rifugio e un gioiello, anche se spesso non tutti ci sono simpatici. E’ questo, che si è andato perdendo nella società occidentale, il senso di appartenenza a una comunità. Che ci valorizzi, e ci ridimensioni, ci contenga e ci accolga comunque. Con la nostra vera faccia, senza maschera, sia essa vecchia o sbagliata, in un vitale atto di verità.
In un sondaggio, il Ghana è risultato essere uno dei paesi con il maggior livello di felicità, eppure è molto povero. Ma ha una dimensione comunitaria forte. Non sarà Internet a restituircela.
In USA una persona su quattro non ha nemmeno un amico. Secondo Marco D’Avenia, docente di filosofia morale, “siamo il terzo mondo delle relazioni”[1]. E’ un problema di mancanza di tempo, grande alibi per eliminare ciò che non si ritiene abbastanza importante. Ma non solo, è anche un più profondo negare fiducia, a quel mondo di fuori così minaccioso.
Molti dei miei pazienti ammettono di non aver parlato con nessuno nell’ultimo periodo, nemmeno con il partner, i figli, le amiche, pur avendoli incontrati ogni giorno. Non c’era tempo, non avrebbero capito, ecc. E non hanno nemmeno ascoltato nessuno, al di là delle consegne concrete. Eppure, in che altro modo farsi coraggio, cercare significati, se non nella condivisione?
[1] Convegno “La necessità dell’amicizia”, Università Pontificia Santa Croce.